Kafka sognatore ribelle by Michael Löwy

Kafka sognatore ribelle by Michael Löwy

autore:Michael Löwy [Löwy, Michael]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Biography & Autobiography, Literary Figures, Literary Criticism, General
ISBN: 9788833021546
Google: Q2jqzgEACAAJ
editore: Eleuthera
pubblicato: 2022-09-14T22:00:00+00:00


Hermann Kafka (Osek, 1852 - Praga, 1931), padre dello scrittore.

capitolo terzo

Il Processo,

da Mendel Beiliss, il paria ebreo,

a Josef K., la vittima universale

Nel suo notevole saggio sulla «tradizione nascosta», pubblicato nel 1944 dalla rivista «Jewish Social Studies», Hannah Arendt presenta Kafka come uno degli esempi più rimarchevoli (con Heine, Chaplin e Bernard Lazare) della sensibilità del paria-ribelle nella storia della moderna cultura ebraica. Una sensibilità che, sulla base dell’esperienza di esclusione e di oppressione, mette in discussione i fondamenti della società politica esistente.

Secondo Arendt, l’opera che esprime nel modo più pregnante l’atteggiamento di paria-ribelle è Il Castello, «l’unico romanzo nel quale Kafka discute la questione ebraica, l’unico il cui protagonista è chiaramente un ebreo». Certo, K. non ha nessun tratto tipicamente ebraico, ma si trova immerso in situazioni e incertezze «specifiche della vita ebraica»1. K. è un «uomo di buona volontà» che chiede solo il rispetto dei propri diritti e che vorrebbe semplicemente diventare un abitante del villaggio come gli altri. Ma si distingue da questi, che si comportano come vittime passive di una fatalità, per la volontà di determinare il proprio destino2.

La lettura di Arendt è interessante, ma eccessivamente centrata sul tema dell’ebraismo: nel romanzo non c’è niente a indicare che «le situazioni e le incertezze» di K. siano specificamente ebraiche, anzi, esse valgono per qualsiasi straniero o immigrato. Più discutibile ancora è il tentativo di Arendt di tradurre in termini sionisti la filosofia politica del romanzo: Kafka sarebbe un sionista che vorrebbe eliminare la situazione «abnorme» degli ebrei, simbolizzata dal personaggio di K. Il minimo che si possa dire è che un’interpretazione del genere è completamente arbitraria e che non corrisponde in nulla alla trama del romanzo, per non parlare della profonda ambiguità di Kafka nei riguardi del sionismo, espressa in sintesi nella famosa nota del 1918 sui suoi diari in ottavo: «Non sono stato condotto nella vita dalla mano del cristianesimo, peraltro già pesantemente in declino, come Kierkegaard, né ho potuto ancora afferrare, come i sionisti, l’ultimo lembo del mantello di preghiere ebraico che già volava via. Io sono fine e principio»3. Certo, nel corso degli ultimi anni di vita, egli manifesterà un reale interesse per certi aspetti del progetto sionista: si metterà addirittura a studiare la lingua ebraica e accarezzerà il sogno di un viaggio in Palestina4. Ma non c’è niente che indichi un reale impegno nel movimento, a differenza del suo amico Brod.

Solo pochi mesi dopo, Hannah Arendt pubblica sulla «Partisan Review» (all’epoca rivista della sinistra antistalinista) un nuovo saggio su Kafka che riprende i temi centrali del testo precedente, ma stavolta con una chiave di lettura decisamente universalista: K., il protagonista del Castello, è un forestiero, un immigrato che si batte per il riconoscimento dei propri diritti5. Tale interpretazione è indubbiamente più vicina allo spirito e alla lettera del romanzo, ma è scomparsa l’intuizione ricca e avvincente sul ruolo del sentimento ebraico del paria-ribelle. In altre parole, alla lettura arendtiana di Kafka, pur illuminante e innovativa in tanti sensi, manca la mediazione tra il momento ebraico e il momento universale.



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